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Possiamo dire che più il cibo ci è « lontano », più ci fa paura: «Oltre quattro milioni di famiglie (il 16%) si dicono preoccupate per la qualità degli alimenti acquistati abitualmente. Il numero sale fino a quasi il 70% se si considera anche chi si dichiara abbastanza preoccupato». È il risultato di un’indagine di Accredia e Censis sulla percezione della sicurezza del cibo quotidiano. Spulciando i dati più in profondità si capisce come la distanza — concreta, culturale o data da mia scarsa informazione — sia il motivo principale per cui quando si acquista il cibo si ha una qualche preoccupazione. Distanza concreta: la gente si fida di più dei prodotti acquistati direttamente dal produttore, nel piccolo negozio di quartiere o nel banco di frutta e verdura vicino a casa. Distanza culturale: ci si fida di più dei prodotti italiani, della tipicità – marchio Dop [[Denominazione di origine protetta]] e Igp [[Indicazione geografica protetta]] – del biologico; si ha paura di un generico « cibo etnico ». Infine, distanza dovuta alla scarsità d’informazione: è il prodotto a lunga conservazione, in scatola, di produzione industriale e proveniente dall’estero, quello che fa nutrire maggiori perplessità all’acquirente. Anche cibi precotti e già pronti, venduti negli hard-discount, con le etichette poco trasparenti e con scarse notizie su provenienza e ingredienti sono sentiti come meno « sicuri » degli altri.

Ad Accredia, giustamente questi risultati appaiono un po’ paradossali, visto che svolgono un’attività intensissima per scongiurare frodi, pericoli e contraffazioni. Attività necessaria e che sono sicuro sia eseguita molto scrupolosamente, ma è altrettanto evidente quanto sia impossibile poter pensare di controllare tutto. Nonostante i loro sforzi, infatti, gli italiani continuano a non essere del tutto sicuri sul loro cibo: d’altra parte «nell’ultimo anno più di 7 milioni di famiglie si sono ritrovate almeno una volta con un prodotto confezionato rivelatosi avariato». Allora ci vuole anche altro, qualcosa che ha a che fare con la nostra idea di cibo e che inevitabilmente ci fa tornare sul concetto di « distanza ». Come si riduce queste lontananza? Due sono le parole chiave: educazione e prossimità. La maggior parte delle persone non sa quasi più nulla sul cibo. Non sa comprenderne le qualità effettive a partire dal suo sapore, non abbiamo palati « esperti » ed educati. Non lo sa cucinare, soprattutto se richiede una lavorazione un poco più complessa » (quanti sono in grado di pulirsi da soli un pesce crudo o un pollo?). Non si conosce più la stagionalità, il che sembrerebbe banale, ma provate a domandarvi esattamente in che mesi abbiamo i pomodori, le zucchine, le arance e poi andate a controllare la risposta esatta: resterete sorpresi. Non sappiamo quali sono le tecniche di conservazione moderne dell’industria, ma neanche più quelle casalinghe dei nostri nonni. Non conosciamo le varietà di frutta e verdura, ne abbiamo perse tante, ma sono ancora numerose e si prestano ai diversi usi o preferenze gastronomiche. Non sappiamo dove e chi coltiva le materie prime, da dove provengono, in che mani sono passate, come e perché. Sono
informazioni che o non ci dicono o non riusciamo a capire oppure, troppo spesso, che non vogliamo più sapere. Eppure, secondo l’indagine, la sensibilità verso questi temi sta crescendo, la gente vuole informazioni. Il processo però parte prima di tutto a livello individuale: il cibo è ciò che mettiamo nel nostro corpo, indispensabile alla nostra vita e al nostro benessere. Va come minimo « studiato », bisogna dedicarci del tempo.

Sarà così più facile fare una spesa intelligente, e di conseguenza anche trovare i canali giusti, convenienti e « sicuri ». Ed è qui che entra in gioco la prossimità. Sentire il cibo prossimo a se stessi significa poi cercare il cibo prossimo per davvero, quello che gli italiani hanno meno remore a comprare, sempre secondo l’indagine. Cibo comprato dai produttori, che intanto si conosceranno di persona; cibo comprato nei mercati di quartiere, dove chi vende ha una faccia più riconoscibile; cibo di cui si conosce la provenienza, e quindi anche il valore che rappresenta per il territorio d’origine, meglio se il proprio. Accredia e Censis dicono che gli italiani vogliono un cibo «identificabile, pulito, sicuro e buono»; Slow Food sostiene che il cibo deve essere «buono, pulito e giusto». Se ci si ragiona, si giunge tutti alle stesse conclusioni: accorciamo le distanze tra noi e ciò che mangiamo, rimettiamolo ai centro delle nostre vite.

Carlo Petrini, Palati esperti e cibo a chilometro zero, La Repubblica, 2013.

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1. Quali sono i dati principali emersi dalla recente indagine Accredia-Censis e in che senso essi confermano, secondo Carlo Petrini, le idee sviluppate dal movimento Slow Food?

2. Condividete l’idea di Carlo Petrini, fondatore e presidente del movimento Slow Food, secondo cui « educazione e prossimità » sono le due parole chiave di una rinnovata coscienza dell’alimentazione?
Argomentate tenendo conto delle particolarità italiane – culturali, sociali, ambientali – e del contesto di globalizzazione.