EXPRESSION ECRITE

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Nel corso dei primi anni del ventunesimo secolo, la società italiana è stata attraversata da profondi cambiamenti: in parte eredità del passato recente, in parte prodotti da eventi nuovi, in parte riflesso di trasformazioni globali, in parte specifici. Si tratta, in larga misura, di tendenze comuni al contesto internazionale e, in particolare, al resto d’Europa: la globalizzazione, l’immigrazione, l’invecchiamento, l’insicurezza, il disincanto civile. Tuttavia, questi mutamenti sembrano avere indebolito un aspetto sociale tanto condiviso, nella percezione degli italiani, da proporsi – e imporsi – come un marchio del carattere nazionale. Ci riferiamo alla capacità adattiva della società, ritenuta in grado di supplire e di reagire ai limiti dello Stato e del sistema pubblico anche, e forse soprattutto, nei periodi di maggiore difficoltà. Questa rappresentazione del carattere nazionale è largamente condivisa non solo negli altri Paesi, ma anche in Italia. È, quindi, un luogo comune, ma talmente diffuso e interiorizzato tra gli italiani da orientare non solo le immagini e gli atteggiamenti, ma perfino i comportamenti delle persone.

Ciò lo fa uscire dai confini dello stereotipo per tradurlo in un tratto culturale e della personalità. Per chiarire meglio questo aspetto è utile fare riferimento ad alcuni sondaggi condotti in Italia negli ultimi quindici anni al fine di indagare intorno all’identità nazionale. Insieme a molte informazioni, essi hanno rilevato gli atteggiamenti, i riferimenti e i valori maggiormente in grado, secondo gli intervistati, di distinguere gli italiani dai cittadini degli altri Paesi europei. Una sorta di mappa delle rappresentazioni che ricorrono per descrivere e identificare lo specifico nazionale. Al primo posto si incontra l’arte di arrangiarsi, seguita dall’arte tout court, come patrimonio artistico e storico del Paese e quindi dall’attaccamento alla famiglia, dalla imprenditorialità, dal localismo. In fondo alla graduatoria vi sono, invece, il senso civico e il rispetto per le istituzioni, i valori e le regole della Costituzione. Nulla di nuovo, verrebbe da osservare. Questa rappresentazione è, infatti, coerente con gli stereotipi correnti.

Occorre però aggiungere tre diverse considerazioni. In primo luogo, si tratta di rappresentazioni stabili e consolidate, che resistono nel tempo e si ripresentano, nello stesso ordine di preferenza, da quindici anni. Si tratta, inoltre, come abbiamo già osservato, di stereotipi largamente condivisi dagli stessi italiani e, quindi, profondamente interiorizzati. Anche perché – ultima considerazione – molto probabilmente non sono ritenuti negativi dalla maggioranza della popolazione, ma anzi sono considerati elementi coerenti di un profilo sociale valutato senza timidezza e, addirittura, con un poco di orgoglio.

Possiamo rileggere queste indicazioni in modo diverso, con parole diverse. L’arte di arrangiarsi, infatti, non è solo un vizio o un atteggiamento reattivo di fronte alle emergenze. Può essere concepita – ed è stata concepita – anche come una competenza attiva e propositiva, soprattutto se legata alla creatività e alla voglia di fare, di intraprendere. Le stesse immagini che tratteggiano il carattere nazionale, quindi, rappresentano gli italiani in modo ambivalente: creativi e flessibili al tempo stesso. Sono artisti, imprenditori, commercianti, artigiani, viaggiatori, lavoratori. Dotati di grande capacità di adattamento e di innovazione. Sanno affrontare le difficoltà esterne e i problemi interni, rialzandosi ogni volta. Aiutati da una innata creatività, ma anche dal sostegno fornito dalla famiglia e dalla comunità locale, ossia le istituzioni tradizionali. È grazie a esse, infatti, che gli italiani riescono a sopportare i limiti delle istituzioni pubbliche e in primo luogo dello Stato, verso il quale, d’altronde, nutrono diffidenza.

Per fare fronte al dissesto dello Stato e del sistema pubblico, negli anni seguiti alla fine della prima Repubblica si è fatto quindi ricorso alla capacità di reazione delle istituzioni sociali e locali. Mentre la crisi economica e finanziaria di quel periodo è stata affrontata con il concorso determinante dei sistemi produttivi territoriali imperniati sulle piccole imprese e sul lavoro autonomo: i distretti industriali. Da ciò una ulteriore e importante conferma all’idea, teorizzata e promossa apertamente dal Censis di Giuseppe De Rita, che la vera risorsa dell’Italia risieda nella vitalità autopropulsiva della società e dell’economia, intrecciate fra loro secondo un modello molecolare, policentrico e poliarchico. Un’Italia fondata sui sistemi locali, alimentata da un incessante sviluppo dal basso.

Tuttavia, la difficile transizione cominciata in quegli anni – e ancora non conclusa ha estremizzato anche l’altro aspetto che definisce il teorema (o il pregiudizio) della capacità adattiva della società italiana: il distacco dalla politica e dalle istituzioni pubbliche; la riluttanza verso le regole e i vincoli imposti dallo Stato; un orientamento tattico e opportunista verso il bene pubblico; un senso civico quanto meno carente. Alle soglie del 2000, quindi, riemerge la tradizionale opposizione tra società e Stato, ancor più polarizzata rispetto al passato. Da un lato, la società virtuosa, flessibile, laboriosa, che coltiva e riproduce le sue competenze attraverso gli individui, la famiglia e la comunità locale, capace di innovare e di costruire il futuro senza perdere le radici, ma anzi in continuità con esse. Dall’altro, le istituzioni pubbliche e statali, bersaglio di sfiducia e sospetto in misura più accentuata del passato.

In parte perché vengono ritenute – e si sono spesso dimostrate – inefficienti e inaffidabili. In parte per effetto perverso delle stesse virtù sociali. Perché gli italiani stessi appaiono afflitti da particolarismo, attaccamento agli interessi locali, familiari e individuali. Si pongono, nei confronti dello Stato, in modo strumentale, tattico. E delineano con tale atteggiamento un Paese spezzato su base territoriale, fra Nord e Sud e, in generale, diviso nella cultura e negli atteggiamenti tra virtù private e vizi pubblici.

Ilvo Diamanti, La società italiana

Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2010

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1. Quali sono, secondo l’autore, gli elementi che concorrono a definire il « carattere nazionale » degli italiani?

2. Quali sono, secondo voi, le risorse e i limiti di questo carattere, messo a confronto con la realtà di oggi?

TRADUCTION DE FRANÇAIS EN ITALIEN

Sans ce séjour et cette longue mortification de treize ans, Casanova ne serait pas passé à la postérité, nous ne saurions rien de ses aventures. Privé de femmes, privé de société, il se mit à écrire. Et c’est là, sans doute, le plus grand prodige de ce destin prodigieux. Sans avoir jamais écrit auparavant, il devient l’auteur d’un des livres les plus forts, les plus entraînants, les plus beaux, les plus célèbres de la littérature mondiale. Celui que Zweig appelle d’une jolie formule un croisement d’homme de la Renaissance et de chevalier d’industrie ajoute à ces titres déjà enviables celui de grand écrivain. Et sans effort, semble-t-il, tant sa prose fluide court facile et légère ; sans même penser qu’il fait un travail d’écrivain.

Voilà, je pense, ce qu’on lui pardonne le moins. Qu’il ait vécu mieux que les autres, plus agréablement et plus pleinement, passe encore ; mais qu’il ait réussi en outre à se hisser dans le panthéon des gloires durables, c’est trop, surtout pour notre siècle.

Jusqu’à sa mort, Casanova aura été le dilettante parfait, l’amateur intrépide qui n’a pas besoin de souffrir pour exceller. De quoi faire enrager tous ceux qui tiennent la sueur, les larmes et le sang pour les ingrédients nécessaires du génie.

Dominique Fernandez, Le Voyage d’Italie, Plon, 1997.

TRADUCTION DE L’ITALIEN EN FRANÇAIS

Si accontentava di niente, in fondo, o almeno così sembrava. Più che restare lì, nel nostro scompartimento di terza classe, con l’aria del vecchio che si scalda in silenzio davanti a un bel fuoco, altro non pretendeva. A Bologna, per esempio, non appena fossimo usciti nel piazzale di fronte alla stazione, lui saliva su un tassì, e via. Dopo una volta o due, all’inizio, che venne con noi fino all’università, non successe mai che ce lo trovassimo vicino senza sapere come liberarcene. Conosceva bene, perché glielo avevamo detto, le trattorie a buon mercato dove intorno all’una avrebbe potuto raggiungerci. Tuttavia non vi capitò mai. Un pomeriggio, entrando in un locale di via Zamboni per giocare a boccette, lo scorgemmo seduto a un tavolino in disparte, con davanti un caffè e un bicchier d’acqua, e immerso nella lettura di un giornale. Si accorse subito di noi. certo. Ma fìnse di no ; e anzi, dopo qualche minuto, chiamò il cameriere con un cenno, pagò, scivolando quindi fuori alla chetichella. Non era insomma né indiscreto né noioso. Una mattina, mentre il treno sostava a San Pietro in Casale, d’un tratto volle scendere a procurarci i soliti panini e biscotti al bar della stazione. « Tocca a me », aveva dichiarato, e non c’era stato verso di trattenerlo. Lo vedemmo dunque, dal treno, attraversare goffo i binari. C’era da scommetterlo che si sarebbe dimenticato quanti panini doveva comperare c quanti pacchetti di biscotti.

Giorgio Bassani, Gli occhiali d’oro, Einaudi, 1958.